Eventi estremi e siccità prolungata, in un decennio perso il 30% di imprese e gli agricoltori puntano su colture più resistenti
Avocado, mango, mandorlo, carrubo e melograno stanno soppiantando le colture tipiche mediterranee. Per Coldiretti non si tratta di «abbandonare le colture identitarie della Calabria ma di adattare il modello agricolo»
L’agricoltura è tra i settori maggiormente colpiti dai cambiamenti climatici. Eventi estremi e prolungate siccità mettono a dura prova le imprese che con sotto l’effetto della progressiva tropicalizzazione cedono il passo all’abbandono dei campi, in particolare nelle aree interne e collinari. Secondo dati forniti da Coldiretti, nel decennio 2010/2020 in Calabria si è assistito ad una contrazione del 30% di aziende agricole. «Perdere agricoltura significa perdere presidio umano, cultura e paesaggio. E questo, purtroppo, è processo è già in corso» spiega il direttore di Coldiretti Calabria, Francesco Cosentini.
Quali sono gli effetti più visibili dei cambiamenti climatici in agricoltura in Calabria?
«Gli effetti del cambiamento climatico sono ormai sotto gli occhi di tutti e stanno modificando profondamente il modo di fare agricoltura ed anche i paesaggi. Il fenomeno più evidente è lo stress idrico cronico: le piogge sono meno frequenti, mal distribuite nel tempo e spesso concentrate in pochissimi episodi violenti. Questo significa che i terreni non riescono più ad assorbire l’acqua in maniera graduale, provocando erosione, impoverimento della sostanza organica e maggiore vulnerabilità alle malattie. Parallelamente, stiamo assistendo a un aumento degli eventi estremi: gelate tardive che colpiscono la fioritura, ondate di calore improvvise che bruciano i frutti, venti fortissimi come lo scirocco che in poche ore compromettono vigneti e oliveti. C’è poi lo sfasamento dei cicli vegetativi: piante che anticipano la ripresa vegetativa, fioriture precoci, maturazioni fuori stagione. Questo crea problemi non solo in termini di resa, ma anche di organizzazione del lavoro, che diventa imprevedibile. Il cambiamento climatico in Calabria non è un concetto astratto: significa perdita di qualità, aumento dei costi produttivi e riduzione della redditività. Chi lavora la terra lo percepisce ogni giorno, direttamente nelle proprie mani. Certamente sono utili misure dedicate e differenziate nei piani di adattamento e mitigazione».
Queste condizioni comportano l’abbandono delle terre e delle imprese agricole?
«Sì, purtroppo il cambiamento climatico si aggiunge a una serie di criticità che spingono molti agricoltori all’abbandono, soprattutto nelle aree interne e collinari. Non è solo una questione di clima, ma comunque il clima è un acceleratore devastante: un’azienda agricola già fragile non riesce a sopravvivere se deve affrontare continuamente danni da siccità, gelate improvvise, grandinate e rese dimezzate. Il problema è particolarmente grave per le aziende piccole e familiari, che costituiscono la maggior parte del tessuto produttivo calabrese. I dati nazionali indicano una riduzione progressiva delle aziende agricole negli ultimi anni, e in Calabria questa tendenza è ancora più marcata nelle aree interne. Secondo dati Istat, nel 2010 la Calabria contava circa 137.790 aziende agricole. Nel 2020 le aziende risultano 95.538, con una diminuzione del -30,7% nel decennio. Nello stesso periodo (2010-2020) la superficie agricola utilizzata (SAU) è scesa solo dell’1,1% nella regione, a testimonianza che molte aziende hanno cessato l’attività o sono state assorbite da altre meno numerose ma più grandi. La riduzione del numero di aziende agricole (-30% circa in un decennio) può essere letta come un forte segnale di uscita dal settore di molti agricoltori o di cessione/riassetto aziendale. Il fatto che la SAU scenda poco, mentre le aziende invece calano molto, suggerisce che le aziende rimaste operano su dimensioni maggiori — ossia una concentrazione aziendale. Tutto ciò è coerente con il fenomeno dell’abbandono o della marginalizzazione agricola soprattutto nelle aree montane o collinari: molti terreni restano coltivati da poche imprese o diventano incolti. Perdere agricoltura significa perdere presidio umano, cultura e paesaggio. E questo, purtroppo, è processo è già in corso».
La Calabria, insieme a molte altre aree del sud Italia, negli ultimi anni è stata duramente colpita dalla siccità. Quali sono i correttivi che dal suo punto di vista si potrebbero apportare per migliorare le condizioni degli agricoltori in considerazione del fatto che la Calabria è dotata di molti bacini idrici e invasi?
«La Calabria è una regione per molti versi paradossale: è tra le più ricche d’acqua del Sud, ma è anche una di quelle che soffre maggiormente la siccità. Il problema non è la quantità d’acqua, ma la qualità della gestione. Molti invasi non sono completati, altri non sono collegati, altri ancora funzionano a capacità ridotta per mancanza di manutenzione. Le condotte irrigue in molte zone hanno perdite enormi. In più, la burocrazia scoraggia sia gli investimenti pubblici sia quelli privati. I correttivi possibili sono concreti e realizzabili, se c’è la volontà a completare gli invasi incompiuti e mettere in rete quelli esistenti. Prima di costruire nuove opere, basterebbe far funzionare quelle che già abbiamo. Molti progetti sono fermi da anni. La Calabria non deve rassegnarsi alla siccità: ha tutte le condizioni per diventare un modello di gestione intelligente dell’acqua. Serve un cambio di passo nella governance e una burocrazia che accompagni, non che ostacoli».
Quali sono le colture (o produzioni) che più soffrono questa condizione climatica? Sono state abbandonate? E in prospettiva si potrebbe pensare ad introdurre nuove colture più adatte alla tropicalizzazione del clima in atto?
«Le colture che soffrono maggiormente sono quelle tipiche del Mediterraneo: vite, olivo, agrumi e ortaggi. Queste piante sono abituate a estati calde ma non a lunghi periodi di aridità totale né alle escursioni termiche improvvise. La siccità incide sulla quantità e la qualità, mentre gli eventi estremi mettono a rischio intere stagioni in poche ore. Non possiamo dire che ci sia stato un abbandono generalizzato, ma ci sono zone dove alcune coltivazioni sono state ridimensionate o spostate verso aree più irrigue. In prospettiva, diversi agricoltori stanno valutando o hanno già introdotto colture alternative più resistenti, come avocado e mango, già diffusi nelle aree costiere ioniche e tirreniche; melograno, molto resistente allo stress idrico; fico, specie rustica e abbastanza resistente alla carenza idrica; fichi d’India, che ormai rappresentano una risorsa; carrubo, in forte espansione; mandorlo, specie molto rustica e produttiva in aree pressoché aride; varietà più resilienti di vite e olivo. Non si tratta di abbandonare le colture identitarie della Calabria, ma di adattare il modello agricolo e diversificare per proteggere il reddito degli agricoltori. La tropicalizzazione è un dato di fatto, e il settore primario deve reagire con scelte intelligenti».